Volendo analizzare quello che fu il comportamento dei governanti
locresi nelle vicende appena narrate non si dovrà compiere
l'errore di leggere con superficialità gli atti da essi
compiuti. A prima vista, infatti, si potrebbe pensare che le
loro azioni, nel consegnarsi all'una o all'altra parte,
siano state dettate solo ed esclusivamente da puro
opportunismo. In realtà, scendendo nel dettaglio delle
vicende, quando nel 215 a.C. la città venne consegnata nelle mani dei cartaginesi,
i Locresi scelsero l'unica
opzione razionale che essi avessero a disposizione; da una
parte perchè i cartaginesi non ci avrebbero pensato due
volte a rivalersi sui prigionieri da essi catturati in caso
del rifiuto ad arrendersi, e dall'altra
perchè, anche se avessero voluto resistere, il piccolo
presidio romano e la non numerosissima milizia cittadina
sarebbero stati spazzati via dall'esercito invasore in breve
tempo. Inoltre, l'aver permesso allo stesso presidio romano
di abbandonare segretamente ed in sicurezza la città prima
che fossero aperte le porte ai cartaginesi, rischiando di
subire la collera di questi ultimi, è un'ulteriore
testimonianza del fatto che, se non fosse stata messa alle
strette, Locri, a differenza di altre città che si
ribellarono quasi immediatamente, sarebbe rimasta ancora
fedele a Roma. Ciò detto è più semplice capire il tradimento
operato nei confronti dei cartaginesi nel 205 a.C., perchè
se da un lato è vero che le mutate sorti della guerra
suggerivano un riallineamento con i romani, ormai prossimi
alla vittoria finale, dall'altro i soprusi e le angherie che
la popolazione locrese (memore della tranquillità degli anni
passati sotto le insegne di Roma) dovette subire nei dieci
anni di controllo cartaginese portò gli abitanti a dar man
forte ai romani nel momento in cui sembrava che il presidio
cartaginese all'interno della città potesse avere la meglio
e respingere l'attacco.
Ciò, tuttavia, non risparmiò Locri e la sua popolazione dalla collera romana.
Immediatamente dopo aver
ripreso il controllo della città, infatti, Scipione non ebbe
remore a mandare subito a morte coloro i quali avevano
consegnato la città ai cartaginesi nel 215 a.C., non tenendo
minimamente in considerazione la protezione che era stata
data al presidio romano allontanato dalla città, nè
tantomeno l'indispensabile (come ben sottolineato dal già
citato passo di Livio nel capitolo precedente) aiuto che
l'intera popolazione Locrese aveva dato ai soldati romani
nel momento in cui le sorti della battaglia per Locri
sembravano volgere nuovamente a favore dei Cartaginesi. Ciò
fatto, prima di salpare per la Sicilia, Scipione informò la
popolazione che le sorti giuridiche della città non
dipendevano da lui, ma dal Senato di Roma, e che ad esso i
Locresi avrebbero dovuto inviare i propri ambasciatori per
conoscere quello che sarebbe stato il destino dell'antica
polis.
Intanto la città veniva
lasciata al controllo di Quinto Pleminio e dei tribuni
militari Marco Sergio e Publio Mazieno, e ben presto Pleminio,
approfittando della situazione confusa (dovuta alla guerra
ancora in atto) e della fiducia che in egli riponeva
Scipione, si lasciò andare ad ogni genere di nefandezza, di
violenza e di ruberia nei confronti della popolazione
Locrese tanto da indurre Livio a commentare così la
situazione che si era creata a Locri (Ab Urbe
Condita, XXIX 8, 6-7):
"Ita superbe et
crudeliter habiti Locrenses ab Carthaginiensibus post
defectionem ab Romanis fuerant ut modicas iniurias non aequo
modo animo pati sed prope libenti possent; verum enimvero
tantum Pleminius Hamilcarem praesidii praefectum, tantum
praesidiarii milites Romani Poenos scelere atque avaritia
superaverunt ut non armis sed vitiis videretur certari".
"I Locresi erano stati trattati dai
Cartaginesi con tale arroganza e durezza, dopo la (loro)
ribellione ai Romani, che (alcune) lievi sanzioni le avrebbero
potute sopportare non solo rassegnati ma quasi di buon
grado; tuttavia, nella realtà, tanto Pleminio (rispetto ad)
Amilcare come comandante del presidio, quanto i soldati
Romani del presidio,
superarono (talmente) in misfatti e in rapine i Cartaginesi
che sembrava che volessero rivaleggiare (tra loro) non in
armi ma nei vizi".
Pleminio
arrivò addirittura a saccheggiare, come decenni prima aveva
fatto Pirro, il celebre santuario di Persefone; e come
accadde per Pirro, sottolinea ancora Livio (Ab Urbe
Condita, XXIX 8, 9-11 e 9, 1-7), tale atto nefando segnò
l'inizio della fine del malgoverno di Pleminio. Infatti il
celato malumore che già proliferava tra i soldati romani di
guarnigione alla città per il modo sprezzante in cui
Pleminio esercitava il comando in nome di Roma, dopo tale
atto esplose in sempre più frequenti scontri tra fazioni
interne alla guarnigione; una parte della quale era
apertamente schierata con i tribuni militari Marco Sergio e Publio
Mazieno contro Pleminio ed i suoi uomini, visti come indegni
di portare le insegne di Roma. Dopo uno di questi scontri
Pleminio, stufo del comportamento dei tribuni militari, li
fece bastonare furiosamente, provocando la reazione degli
uomini a loro fedeli che si avventarono sullo stesso
Pleminio sfregiandolo e ferendolo gravemente.
La situazione stava, quindi,
precipitando ed immediatamente, venuto a conoscenza della
situazione, Scipione fece ritorno a Locri per riportare la
calma e, dopo un rapido processo, sentenziò che Pleminio si
trovava nel giusto e che i tribuni militari dovessero essere
arrestati e condotti a Roma per essere giudicati
dall'autorità senatoria. Ma, una volta ripartito Scipione,
Pleminio riprese a governare come aveva sempre fatto e,
sostituendosi al Senato Romano, mandò a morte i due tribuni
militari e si vendicò con ferocia di quei Locresi che
avevano "osato" lamentarsi del suo governo con Scipione.
Ma la misura era ormai colma ed
i Locresi decisero di rivolgersi direttamente al Senato di
Roma, inviando dieci ambasciatori, per porre fine alla
terribile situazione nella quale versavano e chiedere
giustizia. E giustizia Locri ottenne.
Dopo essere stati ammessi ad
esporre il proprio caso in Senato, il più anziano degli
ambasciatori prese la parola raccontando minuziosamente
tutte le vicissitudini che aveva attraversato la popolazione
Locrese dall'insediamento di Pleminio nella città. Ma non
solo. Mostrando una notevole abilità oratoria l'ambasciatore
Locrese non cercò nè di evitare, nè di minimizzare il fatto
che la città nel 215 a.C. si fosse consegnata ai Cartaginesi
volgendo le spalle a Roma, tutt'altro. Cercò, invece, di
sottolineare, riuscendovi, come tale situazione fosse da
attribuirsi ad un numero esiguo di membri della classe
dirigente (per altro già passati per le armi da Scipione
all'indomani della riconquista) mentre, al contrario, la
popolazione nel suo complesso rimase sempre fedele a Roma; e
così facendo l'anziano ambasciatore riuscì a spuntare
l'unica arma che il Senato Romano avrebbe potuto utilizzare
per giustificare la condotta di Pleminio. Inoltre, toccando
un argomento che stava a cuore ai senatori, l'ambasciatore
Locrese descrisse con dovizia di particolari l'azione
sacrilega compiuta contro il Persephoneion da Pleminio e dai
suoi uomini, senza alcun riguardo per la divinità,
ricordando come un tale atto fu foriero di sventura per
Pirro diversi decenni prima e sottolineando come essi
fossero riusciti a superare di gran lunga ed in modo
inimmaginabile i Cartaginesi in fatto di crudeltà e
nefandezze.
I fatti narrati dall'ambasciatore Locrese nella sua lunga esposizione
lasciarono attoniti ed indignati i Senatori romani; a
prendere per primo la parola fu Quinto Fabio che, dopo aver
deplorato l'accaduto, propose una serie di atti da compiere
per espiare la colpa e difendere il buon nome di Roma. Tra
questi, l'arresto e la conduzione a Roma di Pleminio per
sottoporlo ad un pubblico processo, la restituzione di tutto
il maltolto ai Locresi ed il ripristino del tesoro del
Persephoneion con il doppio dei valori che vi si trovavano
all'interno prima dell'atto sacrilego oltre ad una serie di
sacrifici da compiere in favore della divinità (Livio, Ab Urbe
Condita, XXIX 19, 6-9):
"[...] Locrensibus
coram senatum respondere quas iniurias sibi factas
quererentur eas neque senatum neque populum Romanum factas
velle; viros bonos sociosque et amicos eos appellari;
liberos coniuges quaeque alia erepta essent restitui;
pecuniam quanta ex thesauris Proserpinae sublata esset
conquiri duplamque pecuniam in thesauros reponi, et sacrum
piaculare fieri ita ut prius ad collegium pontificum
referretur, quod sacri thesauri moti aperti violati essent,
quae piacula, quibus dis, quibus hostiis fieri placeret
[...]".
"Ai Locresi si doveva rispondere in
piena assemblea poiché quelle offese di cui essi si
lamentavano, il senato ed il popolo romano non avrebbero
voluto che fossero mai state fatte; (i Locresi)
dovevano essere ritenuti brava gente alleata ed amica; a
loro dovevano essere restituiti i figli, le mogli e tutto
quanto (ad essi) era stato portato via; dopo aver indagato
l'entità delle ricchezze sottratte al tesoro di Proserpina,
queste si rifondessero in quantità doppia nel tesoro
(stesso) e fosse compiuta una cerimonia espiatoria, dopo
aver consultato il collegio dei pontefici, dal momento che
si trattava della rimozione e della violazione di un sacro
tesoro, per sapere quali espiazioni si proponesse di fare, a
quali dei e con quali vittime".
Quinto
Fabio, inoltre, più per motivi di carattere strettamente
politico che per reale necessità, suggerì provvedimenti
severi anche contro lo stesso Scipione andando oltre quelle
che erano state le richieste dell'ambasciatore Locrese che,
parlando di Scipione, gli aveva attribuito, nella vicenda,
al massimo una negligenza dovuta, in tempi di guerra, ad
impegni considerati più importanti da affrontare rispetto
all'amministrazione di una città appena riconquistata.
La decisione finale del Senato
accolse in pieno le richieste di Quinto Fabio, eccezion
fatta per quanto riguardava la posizione di Scipione. Per il
Generale Romano (è bene, a questo punto, ricordare che nel
momento in cui il Senato pronunciava le sue decisioni la
guerra era ancora in corso), infatti, si preferì seguire le
indicazioni del senatore Quinto Metello che aveva proposto l'invio,
presso il suo accampamento in Sicilia, di una commissione
d'inchiesta senatoriale composta da dieci senatori, due
tribuni della plebe (Marco Claudio Marcello e Marco Cincio
Alimento) ed un edile e presieduta da un pretore
(scelto nella persona di Marco Pomponio) che avrebbe dovuto
indagare su eventuali comportamenti scorretti da parte di
Scipione nei confronti dei Locresi.
A seguito di ciò Pleminio venne
condotto in catene a Roma insieme ad altri uomini
riconosciuti come suoi complici; ma il suo processo non ebbe
conclusione in quanto morì presso il carcere Mamertino, nel
quale era rinchiuso, prima che la sentenza potesse essere
pronunciata. La commissione d'inchiesta senatoriale che
doveva indagare su Scipione si rivelò, come apparve chiaro
sin dall'inizio, nulla più che un mero atto formale che non
riscontrò nulla di censurabile nel comportamento del
Generale Romano. La popolazione Locrese venne risarcita come
stabilito ed il tesoro del Persephoneion venne restituito in
misura doppia rispetto all'originale mentre vennero dedicati
sacrifici espiatori alla divinità. Inoltre il Senato
restituiva a Locri il suo status di città libera, alleata di
Roma, con la possibilità di autogovernarsi secondo le
proprie leggi (Livio, Ab Urbe
Condita, XXIX 21, 7):
"Locrensium
deinde contionem habuit atque iis libertatem legesque suas
populum Romanum senatumque restituere dixit [...]".
(In questo
passo Livio fa riferimento alle parole usate dal Pretore Marco Pomponio)
"Dichiarò poi pubblicamente in un'assemblea dei Locresi che
il Popolo Romano ed il Senato rendevano loro libertà e
leggi".
Siamo ormai
nel 204 a.C.; con il ripristino del foedus amicitiae
e grazie all'ampia autonomia che Roma le concesse la città
Locrese poté mantenere ancora in uso leggi e costumi propri
della sua origine greca, ma le vicissitudini del III sec.
a.C. causarono un notevole ridimensionamento della città
stessa, sia dal punto di vista economico che da quello
demografico. Ampie zone della città vennero abbandonate in
questo periodo (tra queste l'area di Centocamere) e si
incominciarono a sviluppare vari insediamenti agricoli nelle
aree limitrofe.
L'antico splendore, quindi, si andava via via offuscando ma
la città continuerà a rivestire una certa importanza negli
anni successivi alle vicende appena narrate anche se i
caratteri greci dell'antica polis lasceranno d'ora in poi sempre più
spazio, come vedremo, alla romanità arrivando ad essere
assorbiti in maniera tale da non poter più essere distinti
da essa. |